Andrea Jori
Scultore e pittore
L’approccio di Andrea Jori alla centrale e radicale tematica del rapporto umano-sovrumano si ripropone approfondito e interiorizzato in questa sua nuova, impegnativa e sorprendente ceramica. Dove egli supera di slancio certi indugi formalistici, estetizzanti nei quali ancora si attardava la sua Natività del ‘91, per avvicinarsi, pericolosamente, al cuore del mistero. E lo fa con un linguaggio figurativo e plastico personale, sicuro, lungamente soppesato e messo a punto - sappiamo - nelle ricerche sul frammento e qui pervenuto ad esiti davvero ragguar­devoli di sintesi compositiva e maturità di espressione.
Un linguaggio, insieme sorvegliato e opulento, al cui banchetto si ritrovano con sorprendente naturalezza commensali anche illustrissimi, quali Raffaello e Caravaggio e Dalì, accolti sì con deferenza ma anche con invidiabile libertà interpretativa.
Di fronte a questa Natività si ha come la netta sensazione di passare dall’idillio, appena inquieto di messaggi celesti, dei racconti di Luca e di Matteo, cari a una pur ricchissima tradizione iconografica, alla impennata vertiginosa del Prologo di Giovanni: “E il Verbo si fece carne e abitò tra noi”. Tanto che “la carne” - vale a dire l’uomo nella sua dimensione caduca, corruttibile - ne è sconvolta. C’è, in questa figurazione di Jori, una sorta - diremmo con Péguy - di “carnale assenza”, nel senso che la carne è sì partecipe e coinvolta nell‘Evento, ma fino a esserne lacerata, svuotata, piegata a esprimere, a invocare un‘aldilà di se stessa.
Ed è il Logos a dominare la grande composizione, la potenza del Logos, che la carne può assecondare o contrastare, ma - sembrano dire queste forme toccate dal fuoco sacro - non più ignorare. La Natività è l’evento discriminante, nel quale volti rasserenati si confermano in un raggiunto equilibrio, mentre volti pensosi (e coscienze inquiete) ad esso si volgono con le domande ineludibili: quale senso? quale identità? L’incarnazione del Verbo comporta che il problema vero di ogni carne sia di farsi Verbo, cioè coscienza di un destino che la trascende, dove trovano, o intravedono, speranza di riscatto le stesse fragilità della carne, la sua caducità, la sua continua esposizione alla morte. Vale a dire che, nel raggio dell‘incarnazione, i vuoti, i mancamenti, le lacerazioni che segnano l’esperienza nella carne non sono più sconta­tamente uno stigma di imperfezione, anzi si caricano di valenze inedite, promettenti e perfino scioccanti quanto più inopinabili: quasi allusio­ni alla intuita forma primigenia e, non di meno, alla pienezza definitiva, e insieme solchi di vita che matura in un mistero di morte-e-nuova-generazione.
Spenti, esauriti nell‘esperienza personale così come in quella storica, i tentativi della durata impossibile, prendono forza intuizioni di un possibile trascendimento della durata stessa, sul ponte sottile che l’incarnazione del Verbo ha gettato, per ogni carne. La fine, insomma, non è più in contraddizione con l’inizio (la nascita). E, più che tutto, non è, o potrebbe non essere, lontana dal fine.
Davvero ci piacerebbe che opere come questa di Jori trovassero stabile collocazione in qualche nostra chiesa, non importa se di struttura tradizionale o di linea moderna, anche a riprova che il linguaggio della modernità non è alieno dal simbolo e dal mistero, anzi è capace di trasmettere loro nuova forza espressiva e di coinvolgimento, di avvicinare il messaggio ai nodi, e ai drammi, dei reali percorsi quotidiani.
Benito Regis, 1993

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