Andrea Jori
Scultore e pittore
Il sommesso brulichio della terra di Virgilio, in quella indescrivibile atmosfera di vapori nebbiosi  e dell’immobile afa estiva, si anima a tratti in alcuni punti della città dove la vita sembra pulsare più velocemente e con maggiore intensità. Passata piazza Sordello e lasciato alle spalle il trionfo dei Gonzaga, superato il Volto di San Pietro, ecco la via Accademia di asburgica memoria. Già si vede il Teatro Scientifico inaugurato dal piccolo Mozart, già si scorge la piazzetta dedicata a Dante, a un passo le carte dell’Archivio di Stato, dell’Accademia Virgiliana e l’ingresso della Biblioteca voluta dall’imperatrice Maria Teresa. Le note degli allievi del conservatorio, le voci dei passanti, il chiacchiericcio da bar, il ticchettio dei tacchi femminili e il brusio dei commenti da dopo-concerto all’uscita dal Bibiena… tutto questo è fuori ma tutto questo è anche dentro… Perché lo studio di Andrea Jori è un luogo nella città che respira con la città. Passata l’intercapedine di una porta bronzea (il “benvenuto” dell’artista) siamo all’interno del laboratorio. Lo sguardo concentrato, i capelli scompigliati (scapigliati?), le mani agilissime nel modellare la creta ma anche la sosta della riflessione e il tempo per uno scambio di battute. Inizia così, con naturalezza, il dialogo con l’artista.
Ogni spazio del tuo studio è tappezzato da appunti, disegni, grafiche, bozzetti, anche di grandi dimensioni, e lavori conclusi… mi sembra limitato definirti semplicemente uno scultore… direi che sei piuttosto un artista eclettico…
Effettivamente questa può essere una chiave interessante di interpretazione per comprendere il mio itinerario artistico. Ho iniziato al termine degli anni Sessanta con un ciclo di incisioni e, proprio partendo dalla grafica, sono gradualmente passato alla scultura, alla terracotta, al bronzo e ora ad opere polimateriche.
Hai avuto forse un rifiuto di ciò che ti aveva caratterizzato sino a quel momento?
Non direi “rifiuto”, preferirei parlare di elaborazione, di lenta transizione. Mi piace cercare nuove espressioni artistiche, evitando di mantenere connotazioni stilistiche obsolete.  Sono certo che se mi dicessero che sono arrivato al punto massimo raggiungibile dal mio lavoro proverei una sorta di insofferenza… Questa motivazione alla ricerca mi ha portato, come dicevo, a passare dalla grafica alla scultura ma anche a dare vita a molti progetti interdisciplinari per arricchire il mio lavoro. In particolari occasioni le mie esposizioni sono state integrate da musiche composte appositamente e da allestimenti  derivati dal teatro.
Parli di continua ricerca ma è chiaro che questo spirito di lavoro può arrivare a scontrarsi con le richieste precise da parte della committenza e dei collezionisti…
Sicuramente… è per questo che cerco di tenermi il più possibile svincolato dalle committenze. Credo che uno dei  problemi dell’arte attuale sia la sua eccessiva commercializzazione. In una società dove tutto ha un valore intrinseco economico, anche gli artisti sono a rischio di mercificazione. Sono convinto che questi siano meccanismi che allontanano dalla pura ricerca e che le pressioni del mercato siano un “freno”  per la creatività degli artisti.
La risposta a qualsiasi tipo di vincolo si esprime nella tua testimonianza di vita: hai scelto di essere artista ma anche artigiano. Avverti questa coesistenza di situazioni più come un limite o come una risorsa?
Sicuramente come una risorsa per l’aspetto tecnico del lavoro. Per fare arte è utile una solida preparazione professionale e, oggi come nel passato, il lavoro artigiano ha rappresentato la base di partenza. Se penso poi al fatto di avere un laboratorio aperto al pubblico, devo dire che questo mi ha garantito un contatto con le persone e con la realtà quotidiana, evitando l’isolamento.  L’essere anche artigiano, inoltre, permette un continuo percorso di affinamento manuale. Come per i musicisti anche per gli scultori la sensibilità va continuamente allenata. Solo così la mano può essere davvero un corpo unico con la materia. Il continuo lavoro, lo studio e  il costante  confronto culturale sono  parte integrante del mio stile di vita, fanno parte della mia quotidianità.
Ammetti di essere per molti versi un “cane sciolto” e uno spirito libero. Non temi che questo possa anche significare un pericoloso isolamento dai contatti e da alcune situazioni di crescita?
Per fortuna al giorno d’oggi si ha la possibilità di contattare anche virtualmente molte realtà artistiche lontane da noi e non si è mai completamente al di fuori degli eventi più significativi. Per quanto mi riguarda non avverto un reale isolamento e posso sottolineare ancora una volta il mio impegno quotidiano. Credo che questo sia un modo concreto di incidere sulla realtà del nostro tempo.
Dalle tue scelte si comprende che ti senti profondamente parte della realtà che ti circonda. Come vivi il rapporto con la tua città? Riesci ad esprimerti completamente o ti sembra uno scenario inadeguato?
Credo che potrei esprimermi e creare ovunque, indipendentemente dal luogo geografico. Devo aggiungere che, per quanto riguarda la mia ricerca, la nostra città presenta però un aspetto favorevole, ovvero dei ritmi più calmi, meno stressanti che permettono di svolgere in modo ottimale ogni tipo di approfondimento.
Al di là degli stimoli esterni e dei contatti con le persone ai quali hai fatto riferimento, quali sono le tue fonti di ispirazione?
Posso  affermare, solo genericamente, che il mio percorso come uomo e come artista  trae ispirazione dagli spazi di vita, che si incrociano nella  complessità del nostro tempo. Sono convinto che la mia affermazione, in quanto individuo, sia tutto sommato relativamente importante. Spero piuttosto di lasciare al termine della mia esistenza, un corpus di opere stimolanti che riescano ad incidere culturalmente, tracciando un sentiero.
Così dicendo ti metti in una dimensione che va oltre il “qui e ora” e che sfida il tempo e lo spazio verso il futuro. Come ti metti in relazione invece con il passato e con le testimonianze di chi ti ha preceduto?
Quella del rapporto tra passato e presente è una diatriba  complessa di non facile interpretazione.
Mi ha fatto meditare ciò che Walter Benjamin  ha scritto: «…Non è che il passato getti la sua luce sul presente o il presente la sua luce sul passato, ma immagine è ciò in cui quel che è stato si unisce fulmineamente con l’adesso in una costellazione…». Pochi grandi artisti hanno lavorato senza una profonda cognizione della cultura che li ha preceduti e oggi chi non riflette su questo aspetto rischia delle conclusioni fuorvianti. Questo non significa che si debba essere legati in modo anacronistico al passato, anzi, nel mio caso la conoscenza delle espressioni artistiche delle epoche antiche, mi ha fortemente sollecitato: studio il passato e il presente come aspetti  equidistanti  nella mia quotidiana ricerca artistica. Desidero essere un artista del mio tempo. Leggo testi d’arte di epoche diverse, mi soffermo sulle pitture rupestri come sulle installazioni della Biennale di Venezia, faccio tesoro di tutte le esperienze cercando di approfondire e di ampliare i miei orizzonti culturali.
È curioso che ad esprimersi così sia un ex ragazzo che nel 1977 si laureava al D.A.M.S. negli anni in cui si dichiarava che la figurazione era morta e sepolta…
Quelli erano anni in cui spesso le gallerie erano circoli chiusi e la cultura gravitava attorno ad alcune forme di potere. Oggi (come allora) penso che sia limitativo parlare di arte in questo senso. Ho lavorato per arrivare al privilegio di non essere etichettato, di potere evolvermi senza vincoli. Per quanto riguarda la figurazione non ho mai creduto alla sua morte definitiva e, tuttavia, ho sempre  guardato con interesse alle attuali espressioni artistiche informali. Sono convinto che la figura umana  emani un fascino senza tempo. Oggi c’è meno rigidità di pensiero e realtà stilistiche diverse possono coesistere e dare vita ad interessanti dibattiti.
La tua indipendenza di idee e di espressione mi sembra molto forte anche (se non soprattutto) quando affronti la sacralità e la spiritualità. Trovi che ci sia ancora spazio per questo tipo di tematiche e credi che ci sia un’attualità di linguaggio adatta al nostro tempo?
Devo fare una necessaria distinzione riferendomi al rapporto tra Chiesa cattolica e spiritualità in senso lato. La Chiesa ufficiale normalmente tende ad essere parzialmente conservatrice e quando si propongono delle innovazioni iconografiche si rischiano delle incomprensioni. Penso soprattutto al problema dell’inserimento dell’arte contemporanea nelle chiese antiche e al fatto che  l’ambiente sacro è sempre stato un luogo di contaminazioni, di sovrapposizioni e di stratificazioni di espressioni artistiche. Credo che, seguendo questa prospettiva, sia interessante valutare anche le nuove proposte: un’opera contemporanea di qualità può essere accostata a un contesto antico.
Per quanto riguarda il tema della spiritualità intesa come modo di porsi nei confronti della vita, la situazione è ancora più complessa. Sento che  ogni cosa che ci circonda è attraversata  da una  stessa misteriosa dimensione trascendente. Questo grande mistero ha da sempre affascinato e coinvolto gli artisti.
 Vanno lette in questo senso le fratture che spezzano le linee dei tuoi disegni come pure delle tue terrecotte e dei bronzi?
Quelle fratture sono il respiro, l’osmosi che si determina tra l’oggetto e la realtà circostante. Alludo alla dilatazione di senso che può sprigionarsi anche dall’oggetto più insignificante. Potrei dire che tutto fa parte della scultura e che la scultura fa parte del tutto.
…Allo stesso modo si può interpretare la poetica del non-finito?
Nel non-finito interpreto il senso della vita, ovvero il  suo continuo trasformarsi, il tempo che non si fossilizza e la morte che non è una fine in senso assoluto. Ecco perché le mie sono opere in divenire. La nostra è l’epoca delle complessità sociali… penso che  il non avere certezze  possa condurre alla riflessione e alla sperimentazione. Guardo criticamente il mio lavoro e non sono mai appagato. Il mio desiderio è dare vita allo spirito del tempo.


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