Andrea Jori
Scultore e pittore
Si fa idealmente pronunciare alla Vergine la Lamentazionedi Geremia (12): «0 vos omnes qui transi­tis per viam, attendite et videte si est dolor sicut dolor meus» («O voi tutti che passate per via, badate e vedete se vi è un dolore come il mio dolore»). E certamente non c’è, né ci fu, né potrà mai esistere un dolore pari a quello di colei che vide morire con il Figlio il Padre e il mistico Sposo. Se si considera che, come scrisse Leonardo, «Dov’è più sentimento, lì è più, ne’ martiri, gran martire», e che l’uomo Cristo è Dio ossia l’infinito, e che per conseguenza la sofferenza del suo martirio ebbe dimensione infinita, si comprende che realmente la Vergine, la «piena di grazia», figlia, sposa e madre del­l’infinito, soffrì quello che nessun’altra figlia, sposa e madre patì o patirà mai.
Cristo è il «divino Eroe», il supremo, paradigmatico, mistico «Attore», protagonista della più alta tragedia della storia. Contemplare il dramma del Golgota nelle stazioni della Via Crucis può dunque riservare la stessa esperienza catartica di cui beneficiava lo spettatore della tragedia greca, rappresentazione sacra finalizzata, secon­do la definizione aristotelica dell’Arte poetica, a liberare l’uomo dal «timore degli eventi contrari» (Carlo Del Grande) e a confortarlo delle proprie afflizioni, come si legge in un frammento di Timocle, poeta ateniese della commedia nuova:
«Osserva, se credi, prima di ogni altra cosa i poeti di tra­gedie, di che vantaggio sono a tutti. Uno che è povero, dopo aver saputo di Telefo, come divenisse più pitocco di lui, già sopporta la povertà più facilmente. C’è chi soffre d’occhi; ma i figli di Fineo erano ciechi! Ad un altro è morto un figlio. Ma Niobe li perdé tutti! Qualcuno è zoppo; si consola pensando a Filottete. Uno è vecchio e sventurato; che consideri la sorte di Eneo. Ognuno, meditando sul fatto che ad altri sono capitate sventure maggiori di quelle ch’egli soffre, si lamenta meno dei guai propri» [(Le donne alla festa di Dioniso) trad. di Carlo Del Grande].
Contemplare quanto Cristo ha sofferto nella propria umanità per redimere il mondo e meditare su tanto dram­ma, può rendere il fedele più cosciente del prezzo della propria salvezza, persuaderlo a sopportare con rassegna­zione la sofferenza impostagli dalla sua relatività e a per­donare, sull’esempio di Cristo, ogni oltraggio ricevuto.
Ma mentre nel teatro è solo finzione e l’attore, smessi i panni ora di Prometeo ora di Edipo, è ombra che se ne va, nella tragedia del Calvario si assiste invece alla realtà che ha diviso il corso della storia umana, la stessa che, pur sotto diverse specie, si perpetua nella consacrazione eucaristica, nella quale il fedele, figlio ed erede del «divi­no Attore», è chiamato ad assistere alla morte e alla risurrezione del Protagonista, ad esserne testimone ocu­lare («Annunciamo la tua morte, o Signore, proclamia­mo la tua risurrezione»), invitato infine a nutrirsi del Suo vero corpo e del Suo vero sangue. Vertiginoso mistero della fede.
Questi pensieri mi hanno ispirato le stazioni della Via Crucis di Andrea Jori. Opera in terracotta di intensa dram­maticità, carica di pathos, qui riprodotta assieme a disegni preparatori, esposta nella Cattedrale per la Settimana Santa, esito di profonda meditazione sul significato del nostro breve vagare in questo mondo e sulla necessità di trovare un varco verso orizzonti di pace interiore e di ele­vazione spirituale, dov’è la giustificazione del senso dell’es­sere universale e della vita di ciascuno. Altre riflessioni ho espresso a margine delle immagini, alternandole a brani tratti dal Vangelo e a versi della laude di Iacopone da Todi, Donna de Paradiso, liberamente disposti.
Considerazioni tutte dedicate alla cara memoria del Rev.do don Gregor Mùller OSB, già docente nell’uni­versità di Bamberg, maestro di umanità che mi onorò della Sua stima e della Sua amicizia:
«Nam et si ambula vero in medio umbrae mortis, non timebo mala, quoniam tu mecum es» (Ps 22, 4).
Rodolfo Signorini, 1996

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